Ecco: la la verde Sirmio nel lucido lago sorride,
fiore de le penisole.
Il sol la guarda e vezzeggia: somiglia d'intorno il Benaco
una gran tazza argentea,
cui placido olivo per gli orli nitidi corre
misto a l'eterno lauro.
Questa raggiante coppa Italia madre protende
con le braccia alte a i superi;
ed essi da i cieli cadere vi lasciano Sirmio,
gemma de le penisole.
Baldo, paterno monte, protegge la bella da l'alto
co 'l sopraccìglio torbido:
il Gu sembra un titano per lei caduto in battaglia,
supino e minaccevole.
Ma incontro le porge dal seno lunato a sinistra
Salò le braccia candide,
lieta come fanciulla che in danza entrando abbandona
le chiome e il velo a l'aure,
e ride e gitta fiori con le man' piene, e di fiori
le esulta il capo giovine.
Garda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
sovra lo specchio liquido,
cantando una saga d'antiche cittadi sepolte
e di regine barbare.
Ma qui, Lalage, donde per tanta pia gioia d'azzurro
tu mandi il guardo e l' anima,
qui Valerio Catullo, legato giù a' nitidi sassi
il fasèlo bitinico,
sedeasi i lunghi giorni, e gli occhi di Lesbia ne l'onda
fosforescente e tremula.
e 'l perfido riso di Lesbia e i multivoli ardori
vedea ne l'onda vitrea,
mentr' ella pe' neri angiporti stancava le reni
a i nepoti di Romolo.
A lui da gli umidi fondi la ninfa del lago cantava
– Vieni, o Quinto Valerio.
Qui ne le nostre grotte discende anche il sole, ma bianco
e mite come Cintia.
Qui de la vostra vita gli assidui tumulti un lontano
d'api susurro paiono,
e nel silenzio freddo le insanie e le trepide cure
in lento oblio si sciolgono.
Qui 'l fresco, qui 'l sonno, qui musiche leni ed i cori
de le cerule vergini,
mentr' Espero allunga la rosea face su l'acque
e i flutti al lido gemono. –
Ahi triste Amore ! egli odia le Muse, e lascivo i poeti
frange o li spegne tragico.
Ma chi da gli occhi tuoi, che lunghe intentano guerre,
chi ne assicura, o Lalage?
Cogli a le pure Muse tre rami di lauro e di mirto;
e al Sole eterno gli agita.
Non da Peschiera vedi natanti le schiere de' cigni
giù per il Mincio argenteo?
da' verdi paschi a Bianore sacri non odi
la voce di Virgilio?
Volgiti, Lalage, e adora. Un grande severo s'affaccia
a la torre scaligera.
– Suso in Italia bella – sorridendo ei mormora, e guarda
l'acque la terra e l' aere.
Bongianni Grattarolo
“Storie della Riviera di Salo’” tipografia Vincenzo Sabbio – Brescia – 1599 :
…….”Ci ha una cima di monte che sopravanza tutte l’altre, detta da Paesani il Pizzocolo , e da forestieri che lo veggono molto da lontano Monte Acuto , per esser acuto in forma di un’Obelisco, quando se ne trovassero di così grandi. Da questa cima, i Contadini Mantoani, e i Cremonesi tolgono il giuditio delle fertilità e delle sterilità degli anni, conciosia che se tra ‘l fin del verno, e ‘l principio di primavera lo veggono chiaro, netto, e discoperto, si promettono bonissima raccolta. Ma se per lo contrario lo veggono coperto di neve, o di nebbie, si portendono penuria, e carestia, ceri che la rubigine o la brina gli habbia da consumar le spighe.
Se ‘l comico Aristofane, ne havesse havuto notitia, l’havrebbe giudicato opportuno da introdurre il suo Socrate a filosofar con le nebbie.”………..
Giuseppe Solitro
“BENACO” Goi. Devoti editore – Salo’ - 1897 :
……...”Ma l'azzurra blandizie cela qualche volta l'inganno. Appare su monte Gu una nuvola bianca, a cui gli orli taglienti l'iride colora; pare gran vela nell’immensità del mare, e come vela sbattuta si svolge, si storce, s’allarga.” ………..
……….”Di pioggia vicina e di burrasca dà segni il Pizzocolo o Gu, quando sulla sua cima fumano le nebbie come folto pennacchio verso il cielo salienti. Fin da antico tempo la cima del Gu servì a dar pronostici del tempo; narra in fatti il Gratarolo che i contadini mantovani e cremonesi traevano da lui il giudizio di sterilità o abbondanza dell'annata; di questa; quando al principio di primavera lo vedevano sgombro di nebbia, di quella quando nello stesso tempo era scuro e caliginoso.
Il lampeggiare fitto verso Peschiera e il rumoreggiare del tuono di là, annunciano mal tempo agli abitanti della riva orientale del Benaco; sono invece pronostico di tempo buono per quelli dell’opposta sponda, onde non è raro sentir in bocca dei contadini di Valtcncse questa sentenza:
Quand tuna vers Veruna
Ciapa la sapa e va sapuna,
Quand tuna vers Serà (Monte Pizzocolo)
Ciapa la sapa e va a cà.”
Giuseppe Milio Voltolina (Salò 1536 – 1580)
"HERCULES
BENACENSIS" - ERCOLE BENACENSE (1575)
ERCOLE UCCIDE IL GIGANTE PIZZOCCOLO ( traduzione di Riccardo Sessa )
La dimora di Ercole erano le torri e le superbe rocche, le cui sommità toccavano il cielo, della grande città da cui il lago prese il nome. O dolore, o nota potenza dell’ignoto destino! Ora la città, sommersa da un terremoto, si vede sotto le acque trasparenti e dal fondo del lago si intravedono le mura.
Ercole, quando Febo splendente sale dal mare verso il cielo, trasportato dal carro, vagando esce dalle mura e si diverte ora a perlustrare le insenature, ora a stampare le impronte dei piedi sulla sabbia molle, ora a percorrere le onde azzurre con una barchetta veloce, ora ad esplorare boschi e luoghi impervi. Ora cerca l’origine del torrente e la sorgente nascosta nella valle Sorentina (attuale Val di Sur) ora volge lo sguardo ai teatri della città barbarica (Barbarano); poi arriva al Clisi, sulle cui rive lo straniero Fadio, proveniente dall’isola di Salamina, depose i suoi tesori, poi va a Scovolo (San Felice), resti dell’antica Troia, poi all’alta rocca di Manerba, novella Corinto.
Spesso al tramonto scavalca con rapida corsa la cima aguzza del vicino monte che sfiora il cielo. Qui cercando luoghi sicuri ma seguendo il suo destino, si era rifugiato il duro e feroce gigante Pizzoccolo all’arrivo dello straniero Ercole che egli temeva perché gli aveva ucciso il fratello (il Baldo, figlio di Tifeo, era suo fratello e Ercole lo aveva vinto, prima di fermarsi in queste rocche turrite ); l’eroe armato di clava con un solo colpo lo fece cadere dalle rocce, uccidendolo; la gente del posto, memore di quell’episodio, ancora oggi chiama Pizzoccolo questo monte.
VERSIONE ORIGINALE
Hospitium Alcidi turres arcesque superbae
urbis erant, quae celsa tulit fastigia coelo,
magnae urbis, lacus unde sibi sua nimina sumpsit:
o dolor! Ignoti hic o nota potentia casus!
Nunc terrae vitreis (heu!) motu eversa sub undis
cernitur, abque imo apparent (heu!) moenia ponto;
hic vagus Alcides, curru se ut ab aequore Phoebus
invehitur coelo clarus, de moenibus altis
egreditur, gaudentque, modo cava litora lustrans,
in molli signare pedum vestigia arena,
celuleasque modo cymba volitare per undas,
et modo per silvas, perque invia lustra vagari:
nunc Surentina fluvii de valle voluti
secretum caput exquirit, fontemque latentem:
barbariaeque urbis scrutatur deinde theatra;
nonc venit ad Clisim; Salaminius hic ubi Gazas
deposuit nostris iam his advena Fadius oris.
Nuncque urbem Scopuli, veteris vestigia Troiae,
noncque, Chorinthe, tuas, nuncque altas Palladis arces:
saepe, cadente die, celeri pede montis acuti,
vicini montis, superat iuga proxima coelo;
arduus huc dirusque gigas tunc forte Picoclos,
ospiti adventu quotiamo sibi norat ademptum
intrepidum fratrem, (Baldus generosa Tiphoei
progenies, frater huic fuerat; Tyrinthius illum,
has cum turritas nondum transisset ad arces,
sustulerat) pavitans huc, inquam, forte Picoclos
aufugerat, loca tuta petens, sed fata sequutus;
claviger hunc heros etenim uno disiicit ictu;
praecipitem saxis vita hunc miserumque cadentem
deserit: illus gens has de nomine rupes,
et populi memores gaudet vocitare Picoclon.